Consumo critico: cosa si intende, come è nato e come è cambiato
Scopri con Fairtrade il significato di Consumo Critico, la sua origine e come adottare un approccio critico al consumo nella nostra vita quotidiana.
Continua a leggereOrmai da diversi anni non ci sono più le collezioni moda stagionali presentate due volte l’anno (primavera/estate; autunno/inverno) ma le proposte dei brand della moda di massa si susseguono a ritmo continuo (si calcola una collezione a settimana!) e così la stagione delle promozioni che non conoscono quasi pausa. Anzi, si stanno sempre di più riducendo i periodi in cui non è in corso una promozione e i capi sono proposti a prezzo pieno.
Si chiama Fast Fashion e nasce negli anni ‘80 del novecento rivoluzionando il concetto stesso di moda, non più centrato sui capi ma su un nuovo modello produttivo. Se andiamo a vedere i dati, negli ultimi 20 anni le persone hanno acquistato il 60% in più di vestiti ma ne hanno buttata via la metà.
Trovare vestiti disponibili, a prezzi molto contenuti, che ricalcano i modelli delle sfilate di alta moda, è il sogno di tutti. Per allargare la platea dei propri compratori, i grandi marchi hanno ideato un nuovo sistema produttivo, la moda veloce, in inglese Fast Fashion.
In pratica l’obiettivo è quello che il capo arrivi nel più breve tempo possibile dal luogo di produzione al negozio, in modo da incentivare le vendite dei vestiti e assecondare il bisogno delle persone di cambiare.
E per farlo, occorre che i vestiti costino poco, molto poco, in modo da invogliare a comprarli senza troppi ripensamenti. “Costa così poco che, anche se lo uso qualche volta o mi sono sbagliata ad acquistarlo, posso comprarne un altro, più attuale e che mi piace di più”.
Chi non ha mai sentito questo discorso? Ma se un capo di abbigliamento costa poco, qualcuno, in qualche parte della filiera della moda, deve aver pagato questo costo troppo basso…
E’ stato proprio uno dei colossi della moda di massa a inventare questo modello produttivo: aprendo un nuovo store, questa insegna ha raccontato che ci volevano solo 15 giorni perché i suoi capi fossero prodotti e spediti ai suoi negozi. Un ricambio veloce, per dare ai clienti la varietà che cercavano a prezzi contenuti. Da allora, il modello produttivo è stato adottato anche da altri marchi globali, i tanti marchi che occupano gli spazi dei centri commerciali di tutto il mondo.
Ma come vengono prodotti questi vestiti e, una volta che noi non li utilizziamo più, dove vanno a finire?
Bangladesh, Cambogia, Cina, Pakistan, India, Vietnam, Tunisia, Marocco… Sono alcuni dei paesi da cui provengono i nostri vestiti: basta guardare l’etichetta.
Scopriremmo inoltre le fibre da cui sono composti: spesso sono tessuti misti che sommano al cotone o alla lana il poliestere o il nylon, tutti derivati dal petrolio.
E troppo spesso il loro prezzo è molto contenuto e il taglio accattivante.
Per produrre grandi quantità di vestiti, bisogna andare nei paesi dove le materie prime e la manodopera costano poco. E dove i governi, pur di far entrare imprese che investono, sono disposti a chiudere un occhio sia sulla tutela dei lavoratori che sulle conseguenze sull’ambiente delle pratiche industriali.
I vantaggi sono molti ed è semplice attivare la gara al ribasso sui costi. E poter comprimere di conseguenza il prezzo finale.
Investire in paesi lontani e dove il costo della manodopera è basso presenta infatti numerosi vantaggi:
Abbiamo parlato dell’impatto ambientale della Fast Fashion in termini di emissioni… Ma dobbiamo guardare anche agli altri danni ambientali causati da questo tipo di sistema produttivo. A partire dalla coltivazione fino allo smaltimento.
La Fast Fashion, in termini di giustizia climatica, è molto ingiusta.
Produrre a basso costo ha un costo sociale molto alto che pagano i lavoratori e soprattutto le lavoratrici lungo la filiera.
A partire da chi coltiva il cotone in Paesi come l’India dove il costo di produzione mette a rischio di povertà estrema gli agricoltori. Per arrivare a chi trasforma la fibra in filo e in tessuto: sono circa 75 milioni le persone coinvolte nella filiera del tessile.
La storia del Rana Plaza, la fabbrica crollata addosso ai suoi operai nel 2013 in Bangladesh, ha raccontato nel modo più efficace e tragico possibile cosa si nasconde dietro l’industria della moda con le sue 1138 vittime e 2600 feriti. Persone ammassate in un edificio fatiscente che sotto il peso dei macchinari è crollato su se stesso. Da allora, molti passi sono stati fatti, ma non abbastanza per garantire condizioni di lavoro sicure e salari dignitosi alle persone che fanno i nostri vestiti. Ancora oggi la filiera della Fast Fashion nasconde pesanti violazioni dei diritti umani fondamentali: riduzione in schiavitù, lavoro minorile, sfruttamento.
Sociale, economica e ambientale: non può essere che così la sostenibilità secondo Fairtrade. Sono 3 pilastri profondamente interconnessi e singolarmente violati dalla Fast Fashion. Si capisce allora come la Fast Fashion sia incompatibile con la sostenibilità da tutti i punti di vista.
Per contrastare la Fast Fashion e sensibilizzare sulle storture del mondo della moda, da qualche anno è nato il movimento della Slow Fashion. E’ un movimento che promuove una moda non compulsiva e che invita le persone a riflettere prima di comprare un capo di abbigliamento:
Solo rispondendo a queste domande prima di comprare si riduce sicuramente il nostro impatto. Nel frattempo altre tendenze si sono affermate, come l’acquisto di capi di abbigliamento usati, l’attenzione ai materiali e alle possibilità di riciclo degli stessi anche se il processo risulta molto costoso.
Se vogliamo che i nostri acquisti siano davvero sostenibili, prestiamo attenzione ad alcuni aspetti:
Compiere scelte in linea con i propri valori, anche nel settore dell’abbigliamento, comporta un lavoro di ricerca e di selezione incompatibile con i ritmi frenetici della Fast Fashion. Significa spesso non solo cambiare negozio ma anche stile di vita: è indispensabile per il futuro del nostro pianeta, se ci stanno a cuore le persone che fanno i nostri vestiti. Utilizzare e riutilizzare i capi che occupano i nostri armadi e, quando abbiamo bisogno di nuovi capi, cercare il marchio Fairtrade è un modo concreto per contribuire al futuro che vorremmo vedere realizzarsi.