Giù le mani dal “consumatore verde”

In un articolo sul numero 1372 della rivista Internazionale il giornalista olandese Tielbeke traccia un profilo del consumatore verde del 2020. Di chi si tratta? È quello che attraverso le proprie scelte di consumo si preoccupa di ridurre i rifiuti, di limitare le emissioni di gas serra, di diminuire per quanto possibile il proprio contributo ai cambiamenti climatici. È spinto da certi scenari (più o meno apocalittici) sulla situazione dell’ambiente che presentano i media, scrive Tielbeke. Ma anche dalle pubblicità incalzanti delle grosse corporation che fanno leva su un certo “senso di colpa” per come vanno le cose in giro per il mondo. E che per farlo si avvalgono di un pot-pourri di marchi di sostenibilità.

PRODOTTI SOSTENIBILI PER CHIEDERE MAGGIORE GIUSTIZIA SOCIALE

Tutto abbastanza vero. Cioè negli ultimi anni gli allarmi sull’inquinamento di mari e fiumi si moltiplicano, i danni generati da situazioni climatiche estreme sono sempre più evidenti, così come le difficoltà degli agricoltori a fronteggiare variazioni metereologiche inaspettate. E dall’altra parte la promozione pubblicitaria di prodotti a basso impatto ambientale è sempre più frequente in tutti i settori economici. Dal caffè alla cosmesi, passando per l’automotive e l’abitare green.

 

Foglie di una pianta di caffè rovinate da “la roya”, un fungo la cui grande diffusione è attribuita ai cambiamenti climatici

Tuttavia, possiamo davvero credere che la scelta di fare acquisti sostenibili da parte delle persone sia guidata solo da campagne pubblicitarie molto convincenti e dal senso di colpa generato per il fatto che ogni produzione è, in qualche modo, inquinante?

Sinceramente crediamo di no. Non solo almeno. C’è anche chi cerca di sostenere circuiti “positivi” perché pensa sia giusto. Ad esempio acquistando prodotti per i quali sa che al produttore sono state riconosciute condizioni di lavoro più “corrette”. E questo non lo dimostrano solo le vendite di prodotti sostenibili, in generale aumento negli ultimi 15 anni in tutta Europa, ma lo spiegano anche tante ricerche di mercato: nel bene o nel male i consumatori oggi sono molto più informati rispetto a 10 anni fa, e più attenti all’etichetta di quello che comprano. Nel 2018, un’indagine di Nielsen commissionata da Fairtrade Italia ha misurato la propensione all’acquisto di prodotti etici nel nostro paese: sempre più italiani hanno dichiarato una maggiore preferenza per le referenze del commercio equo e solidale (si passa dal 23% del 2014 al 29% dell’inizio 2018).


Chi sceglie Fairtrade lo fa perché garantisce un Prezzo stabile (che funge da rete di salvezza in caso di crollo del prezzo delle materie prime nel mercato internazionale) e un Premio per avviare progetti a vantaggio delle comunità dei lavoratori. Perché assicura che nelle aziende agricole e nelle fabbriche sia imposto l’utilizzo di adeguate protezioni, sia vietato l’utilizzo di prodotti chimici dannosi, e perché promuove la transizione verso forme di agricoltura a basso impatto ambientale, il riciclo delle acque (ad esempio nelle produzioni di fiori) e la diversificazione delle colture. Acquistare prodotti Fairtrade significa sostenere, in tutta consapevolezza, una forma di “giustizia sociale”, in tempi di paradossi economici e di grande vulnerabilità per i lavoratori.

A OGNUNO LA SUA PARTE

Su una cosa Tielbeke ha pienamente ragione, ovvero sul fatto che, ove interviene la politica obbligando imprese e privati a determinate regole, i passi in avanti diventano enormi, difficilmente raggiungibili anche da migliaia di singoli messi insieme. Purtroppo però la storia ci insegna che le istituzioni e le corporation non tendono a cambiare spontaneamente, ma lo fanno spinte da necessità esterne e dall’emergere di istanze dal basso.

E allora, continuare a favorire come consumatori scelte green, significa mantenere alto il dibattito intorno a tematiche legate alla sostenibilità perché si supporta anche il ruolo di advocacy svolto dalle organizzazioni come Fairtrade. Ad esempio, nell’ambito delle politiche europee, il 2019 ha visto l’approvazione della nuova Direttiva UE sulle Pratiche Commerciali Sleali (Unfair Trading practices – 633/2019): grazie all’impegno di Fairtrade ed altri partner, il provvedimento ha introdotto tutele da tutte quelle prassi commerciali basate sull’abuso di potere contrattuale all’interno delle filiere per i produttori del settore agroalimentare. È stato un lavoro molto lungo e faticoso, reso però possibile dalle migliaia di persone che in tutta Europa continuano a sostenere le nostre iniziative.

È vero che dopo decenni dalle prime denunce dei movimenti ambientalisti e dalle prime esperienze di commercio equo il percorso per la salvaguardia dell’ambiente e la tutela dei lavoratori in molte filiere è ancora lungo. Tuttavia le relazioni di potere che si instaurano tra corporation, politica, consumatori e organizzazioni che li rappresentano non sono mai univoche, ma sempre fluide. E per questo ciascuno dovrebbe continuare a fare meglio la propria parte.

LA TRAPPOLA DEL PREZZO


Un’altra osservazione di Tielbeke riguarda il differenziale di costo. Tra convenzionale e bio, tra unfair e fair, tra gasolio ed elettrico, alcune scelte di sostenibilità appaiono molto pesanti per il portafoglio.


Qui potrebbe aprirsi un grande dibattito. Nel settore della Grande Distribuzione Organizzata sono le grandi catene a tenere il coltello dalla parte del manico: a “fare” i prezzi e quindi a conservare per sé la fetta di guadagno maggiore in percentuale sul prodotto venduto. Il criterio è quello della domanda e dell’offerta: quante più persone chiedono prodotti sostenibili, quanto più il prezzo si abbassa. Ce ne accorgiamo molto banalmente visitando un supermercato qualsiasi nel nord Europa, dove in generale tutti i prodotti cosiddetti green costano meno rispetto all’Italia perché i consumi sono più diffusi tra la popolazione. Tuttavia, per quello che riguarda Fairtrade nello specifico, la presenza dei prodotti in tutte le maggiori catene della distribuzione italiana e nei discount, ha notevolmente ampliato le possibilità di scelta, sia tra le referenze che a livello di prezzo.


Fatto salvo che è compito di tutti noi cittadini pretendere sempre di più dai rappresentanti politici e dalle aziende, come insiste Tielbeke, cosa resta da fare a chi, nel suo piccolo, vuole contribuire a sostenere filiere virtuose anche dal punto di vista sociale ed ambientale?

Può sembrare poco, ma continuare con la propria spesa quotidiana a privilegiare prodotti sostenibili può fare davvero la differenza per migliaia di persone che dall’altra parte del mondo ne dipendono. Ce lo dicono i produttori e i lavoratori stessi. Sicuramente, non è l’unica cosa che si può fare. Forse ci serve meno utopia e più pragmatismo.

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