Quello di Trump è davvero commercio libero ed equo?

Mai come in questo periodo si è parlato di commercio equo, tanto più dal momento che il fair trade è stato più volte citato dal presidente americano Trump per esprimere la sua idea di commercio, a partire dal Forum internazionale di Davos. Domani Trump conclude il suo tour tra i paesi Europei. Ma quello di cui parla è davvero commercio equo?

Cosa significa “fair trade” per Donald Trump?

Per un po’ di tempo, il Presidente degli Stati Uniti, online e offline ha dato voce al suo sostegno al “fair trade”, incluso un tweet (TUTTO MAIUSCOLO!) di due parole qualche tempo fa. Ma la versione di Trump ha davvero poco a che fare con Fairtrade come lo intendiamo noi. Enfatizza infatti l’occupazione interna (che di per sé non è una brutta cosa) ma non è un fan dei diritti dei lavoratori, e nemmeno delle azioni contro il cambiamento climatico. Anzi, il fair trade di Trump è un’articolazione di “Prima l’America” che rischia di minare l’internazionalismo insito in Fairtrade, che mette al primo posto i lavoratori e i produttori indipendentemente dalla loro nazionalità. Per come lo intendono altri, “fair trade” significa sostegno al sistema globale governato dalla OMC – Organizzazione Mondiale del Commercio e al processo guidato verso una maggiore liberalizzazione.

Fair trade, Fairtrade, Fair Trade

Quello di Donald Trump è “fair trade”, tutto minuscolo, e letteralmente lo traduciamo con “commercio equo”. Ma non è Fairtrade – tutto attaccato con l’iniziale maiuscola, che è il nostro nome proprio e non si traduce. E non è nemmeno il Fair Trade – due parole, con le maiuscole, che indica il più ampio Movimento del Commercio Equo mondiale rappresentato dalla WFTO – World Fair Trade Organisation. Fairtrade e il Fair Trade esistono per migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle persone che nel mondo producono il cibo che mangiamo e gli abiti che indossiamo. Fairtrade, come sanno i nostri lettori, ha un significato ancora più specifico: è un sistema o modo di fare commercio che richiede il rispetto di alcuni Standard e prevede il pagamento di un Premio in denaro per aumentare il reddito e gli standard di vita dei produttori.

La visione di Trump è pericolosa

La visione trumpiana di “commercio equo” ignora il potere dell’America e il posto che occupa nel mondo. Dipinge gli USA come vittima del sistema globale e di tariffe punitive quando in realtà sono stati proprio gli Stati Uniti, più di ogni altro Paese, a contribuire a dare forma alle attuali regole, spesso a discapito delle nazioni più piccole e meno potenti. Il cotone ne è un esempio. Gli USA sono il terzo maggior Paese produttore di cotone e l’industria viene sovvenzionata da molto tempo, causando una contrazione del prezzo del cotone a discapito dei coltivatori di cotone in Paesi in via di sviluppo come Senegal e Mali. Nonostante gli USA abbiamo riformato il loro regime secondo una risoluzione OMC proposta dal Brasile, di nuovo si discute di sussidi nel passaggio al nuovo e controverso quadro normativo del governo americano per l’agricoltura.

Produttore di Banelino, Repubblica Dominicana

Un produttore di banane biologiche e Fairtrade, Banelino, Repubblica Dominicana

L’impatto negativo della liberalizzazione commerciale sui Paesi più poveri

La visione della OMC, condivisa da molti leader globali, potrebbe dare la priorità agli investitori piuttosto che ai produttori. Un esempio è stato quello dell’inclusione dei tribunali commerciali in accordi come quello nordamericano per il libero scambio (NAFTA). Inseguendo l’ideale del libero commercio, è facile trascurare l’impatto negativo della liberalizzazione su particolari paesi o settori, soprattutto se il processo non viene ben gestito. La cosiddetta “guerra delle banane” illustra questo punto. Il nostro consumo di banane è supervisionato da un complesso sistema di accordi e quote che mira a proteggere gli esportatori più vulnerabili – i piccoli stati-isola dei Caraibi – mentre permette ai vicini e più competitivi Paesi latinoamericani (dominati dalle multinazionali americane) di avere nel tempo un maggiore accesso ai mercati europei. Questo accordo “guidato” è nato dalle stesse regole della OMC che all’inizio avevano decimato le aziende bananiere di Paesi come Santa Lucia nei Caraibi. Con il sostegno di schemi di certificazione come Fairtrade, l’industria ha in qualche modo recuperato, ma mentre le tariffe europee per l’America Latina diminuiscono, la situazione rimane precaria per i coltivatori di banane dei Caraibi.
Le parole sono importanti, e con tutte queste versioni di “fair trade” non ti biasimiamo se sei confuso! La prossima volta che senti un politico parlare di “fair trade”, chiediti: sta perorando la causa di un commercio etico, che funziona per tutti gli agricoltori e i lavoratori e soprattutto per quelli nei paesi più poveri? Se così non è, lo puoi archiviare sotto a “potrebbe fare di meglio”, e magari segnalacelo con un tweet a @Fairtradeitalia
(Questo pezzo è stato pubblicato sul blog di Fairtrade Foundation. Traduzione Ufficio comunicazione Fairtrade Italia)
 
 
 

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